Parere in materia di revocatoria fallimentare e revocatoria ordinaria

Ritengo opportuno fare precedere ad una esposizione dettagliata degli istituti emarginati in epigrafe, un breve e succinto flash degli stessi, in modo da consentire di cogliere immediatamente gli aspetti salienti della materia.

L’azione revocatoria è uno strumento utilizzabile dal curatore fallimentare allo scopo di ricostituire il patrimonio del fallito destinato alla soddisfazione dei suoi creditori, facendovi rientrare quanto ne era uscito nel periodo antecedente al fallimento (il cosiddetto periodo sospetto, recentemente dimezzato dalla riforma delle procedure concorsuali): essa consente, infatti, di colpire gli atti del debitore insolvente che hanno inciso sul suo patrimonio in violazione del principio della “par condicio creditorum”.

Suo tramite il curatore può rendere inefficaci gli atti di disposizione, i pagamenti e le garanzie poste in essere dal fallito nell’anno o nei sei mesi antecedenti al fallimento, conseguentemente imponendo ai terzi che hanno ottenuto beni o denaro di restituire quanto ricevuto, o, se hanno ottenuto garanzie, retrocedendoli dal rango privilegiato a quello chirografario. Affinché, tuttavia, la revocatoria possa essere accolta, è necessario che il terzo al momento dell’atto fosse a conoscenza dell’insolvenza della sua controparte.

La revocatoria deve essere esercitata a pena di decadenza entro tre anni dalla dichiarazione di fallimento e comunque non oltre cinque anni dalla data dell’atto.

Non tutti gli atti compiuti da soggetti insolventi, tuttavia, possono venire colpiti dalla revocatoria, perché la legge prevede un ampio numero di esenzioni: tra di esse la vendita a giusto prezzo di immobili destinati ad abitazione principale dell’acquirente o di suoi stretti parenti od affini, i pagamenti effettuati nell’esercizio normale dell’impresa, i pagamenti per prestazioni di lavoro effettuate da dipendenti.

L’azione revocatoria ordinaria, prevista e disciplinata dagli artt. 2901 e seguenti del codice civile, rappresenta di fatto uno dei principali strumenti predisposti dall’ordinamento per la conservazione della garanzia patrimoniale generica di cui all’art. 2740 del codice citato.

In quest’ottica, il massimo collegio capitolino ha più volte ribadito la funzione meramente conservativa e non recuperatoria dell’azione, in quanto diretta alla riduzione in pristino della consistenza patrimoniale debitoria depauperata dall’atto dispositivo.

Di conseguenza, il fruttuoso esperimento del rimedio non può travolgere l’atto pregiudizievole compiuto dal debitore in danno ai propri creditori, ma ne determina semplicemente l’inefficacia nei soli confronti del soggetto che l’abbia utilmente promosso. Costui, dunque, una volta ottenuta la pronuncia di revoca, può conseguire il risultato utile aggredendo il bene oggetto della disposizione impugnata con la procedura di espropriazione forzata ex art. 2902 c.c., nelle forme di cui all’art. 602 del codice di rito.

Passando all’esame dei requisiti per l’esperimento dell’azione de quo, va osservato che l’art. 2901 c.c. prevede espressamente la sussistenza dei seguenti elementi:

A) eventus damni o anche elemento oggettivo:

ai fini dell’esperibilità dell’azione revocatoria ordinaria, non è necessario che il debitore si trovi in stato di insolvenza, essendo sufficiente che l’atto di disposizione da lui posto in essere produca pericolo o incertezza per la realizzazione del diritto del creditore, in termini di una possibile o eventuale infruttuosità di una futura azione esecutiva.

Infatti, l’eventus damni ricorre non soltanto quando l’atto di disposizione determini la perdita della garanzia patrimoniale del creditore, ma anche quando tale atto comporti una maggiore difficoltà ed incertezza nella esazione coattiva del credito.

La giurisprudenza di legittimità ha precisato che l’eventus damni può consistere non solo in una variazione quantitativa del patrimonio del debitore ma anche ad una variazione qualitativa, quando detta variazione sia tale da rendere più difficile la soddisfazione dei creditori stessi (cfr. Cass. Civile n° 5972/05)

Inoltre, per la configurabilità del pregiudizio alle ragioni del creditore non è sufficiente che sussista un danno concreto ed effettivo, essendo invece sufficiente un pericolo di danno derivante dell’atto di disposizione, il quale abbia comportato una modifica della situazione patrimoniale del debitore tale da rendere incerta la esecuzione coattiva del debito o da comprometterne la fruttuosità.

B) elemento soggettivo:

1- (scientia damni) che il debitore conoscesse il pregiudizio che l’atto arrecava alle ragioni del creditore o, trattandosi di un atto anteriore al sorgere del credito, l’atto fosse dolosamente preordinato al fine di pregiudicare il soddisfacimento.

2- (partecipatio fraudis) che, inoltre, trattandosi di atto a titolo oneroso, il terzo fosse a consapevole del pregiudizio e, nel caso di atto anteriore al sorgere del credito, fosse partecipe della dolosa preordinazione.

Sul punto, è opportuno distinguere la trattazione del predetto requisito a seconda che si tratti di:

a) atto anteriore al sorgere del credito: in tale ipotesi, il creditore ha l’onere di dimostrare che l’autore dell’atto, alla data della sua stipulazione, era intenzionato a contrarre debiti o comunque era consapevole del fatto che in futuro sarebbe sorta l’obbligazione ed ha compiuto l’atto dispositivo proprio in funzione del sorgere della futura obbligazione, allo scopo di precludere o rendere più difficile al creditore l’attuazione coattiva del suo diritto.

b) atto posteriore al sorgere del credito: in tale ipotesi, la consapevolezza dell’evento dannoso da parte del terzo contraente, consiste nella generica conoscenza del pregiudizio che l’atto a titolo oneroso posto in essere dal debitore può arrecare alle ragioni dei creditori, non essendo necessaria la collusione tra il terzo ed il debitore.

Infine, è doveroso chiarire che, il requisito dell’anteriorità rispetto all’atto impugnato del credito a tutela del quale essa viene esperita, deve essere riscontrato in base al momento in cui il credito stesso insorge e non in base al momento, eventualmente successivo, del suo accertamento giudiziale.

L’articolo 2902 c.c. dispone testualmente: “il creditore, ottenuta la dichiarazione di inefficacia, può promuovere nei confronti dei terzi acquirenti le azioni esecutive o conservative sui beni che formano oggetto dell’atto impugnato.

Il terzo contraente, che abbia verso il debitore ragioni di credito dipendenti dall’esercizio dell’azione revocatoria, non può concorrere sul ricavato dei beni che sono stati oggetto dell’atto dichiarato inefficace, se non dopo che il creditore è stato soddisfatto”.

Dunque, il vittorioso esperimento di un’azione revocatoria non è idoneo a determinare alcun effetto restitutorio rispetto al patrimonio del disponente, né, tantomeno, alcun effetto direttamente traslativo in favore dei creditori, e comporta soltanto l’inefficacia relativa dell’atto rispetto ai creditori procedenti, rendendo il bene alienato assoggettabile all’azione esecutiva, senza in alcun modo caducare, ad ogni altro effetto, l’avvenuta disposizione (cfr. Cass. Civile n° 17590/05).

Ai sensi del disposto dell’articolo 2903 c.c., l’azione revocatoria si prescrive in cinque anni dalla data dell’atto.

Sul punto, la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che il termine quinquennale di prescrizione indicato dalla norma decorre dal giorno in cui dell’atto è stata data pubblicità ai terzi, in quanto solo da questo momento il diritto può essere fatto valere e l’inerzia del titolare protratta nel tempo assume effetto estintivo (cfr. Cass. Civile n° 1210/07)

Dopo questa breve panoramica introduttiva, giova ricordare che gli articoli 64 e seguenti della legge fallimentare si occupano degli effetti del fallimento sugli atti pregiudizievoli ai creditori.
In altre parole si enunciano i casi in cui gli atti compiuti dal fallito prima della dichiarazione di fallimento  possono essere revocati dal curatore o essere ex lege inefficaci nei confronti dei creditori.
L’effetto della revocatoria fallimentare consiste nell’inopponibilità degli atti compiuti dal debitore ai creditori del fallimento; in altre parole gli atti compiuti dal debitore in stato d’insolvenza sono inefficaci nei riguardi dei creditori, ma validi.

La materia relativa alla revocatoria fallimentare modificata dal decreto legge n° 35 del 14\03\2005convertito con legge n° 80 del 14\05\2005 che ha ridotto i termini per la proposizione della azione revocatoria e l’ha esclusa in alcuni casi.

Tale disciplina è rimasta in gran parte immutata anche dopo la riforma del 2006 e il correttivo del 2007.

Il regime della revocatoria fallimentare varia secondo il tipo di atto compiuto dal debitore, ma se il curatore non può agire con la revocatoria fallimentare, non è escluso che possa agire con la revocatoria ordinaria (art. 2901 c.c.), fermo restando che la domanda è posta innanzi al tribunale fallimentare.

Analizziamo le diverse ipotesi, ricordando, però, che numerosi atti, di cui ci occuperemo in seguito,  sono sottratti alla revocatoria.

Ricordiamo che l’art. 69 bis, originariamente dedicato ai termini generali di decadenza dalla azione revocatoria,  è stato modificato dal decreto legge n° 83\2012 convertito poi con la legge n° 134\2012 che ha aggiunto un altro comma, questa volta dedicato al computo dei termini per esercitare l’azione revocatoria nei casi che vedremo subito appresso. Si è stabilito, infatti che in caso in cui alla domanda di concordato prevetivo segua poi la dichiarazione di fallimento, i termini di cui agli articoli 64, 65, 67, primo e secondo comma, e 69 decorrono dalla data di pubblicazione della domanda di concordato nel registro delle imprese.

Atti automaticamente inefficacinei confronti dei creditori senza che sia necessaria la dichiarazione dell'autorità giudiziaria:

art. 64 della legge fallimentare – compiuti nei due anni precedenti alla dichiarazione di fallimento:

gli atti a titolo gratuito, esclusi i regali d’uso e gli atti compiuti in adempimento di un dovere morale o a scopo di pubblica utilità, in quanto liberalità sia proporzionata al patrimonio del donante.

Art. 65 della legge fallimentare - compiuti nei due anni precedenti alla dichiarazione di fallimento:

i pagamenti anticipati di crediti che scadono nel giorno della dichiarazione di fallimento o posteriormente, se tali pagamenti sono stati eseguiti dal fallito. In questo caso il fallito ha pagato anticipatamente il credito rispetto alla data di scadenza, ma se il credito avesse una scadenza anteriore alla sentenza di fallimento, il curatore potrebbe ottenere la revoca di tale pagamento solo alle condizioni previste dall’art. 67 della legge fallimentare.

Questi atti sono inefficaci ope legis; di conseguenza il curatore potrà apprendere i beni che ne sono oggetto, senza che sia necessaria alcuna altra azione da parte sua.  Questi atti sono tecnicamente al di fuori dell’azione revocatoria perché nessuna azione dovrà essere esercitata dal curatore per farli dichiarare inefficaci. Di conseguenza poiché lìinefficacia opera automaticamente, non sarà necessario accertare lo stato d’insolvenza dell’imprenditore per la revoca e nemmeno che siano stati da lui compiuti per danneggiare le ragioni dei creditori.

Analizzati i casi di automatica inefficacia di atti compiuti dal fallito, passiamo alle vere ipotesi di revocatoria, cioè quelle previste dall’art. 67 della legge fallimentare, dove il curatore dovrà agire in giudizio per ottenere la revoca di determinati atti.

Atti che possono essere revocati solo se il curatore prova l’esistenza delle seguenti condizioni:

A- atti compiuti nell’anno anteriore alla dichiarazione di fallimento:

1- gli atti a titolo oneroso, in cui le prestazioni eseguite o le obbligazioni assunte dal fallito eccedono di oltre un quarto ciò che a lui è stato dato o promesso.

2- gli atti estintivi dei debiti pecuniari scaduti ed esigibili non effettuati con danaro o con altri mezzi normali di pagamento.

3- i pegni, le anticresi e le ipoteche volontarie costituiti per debiti preesistenti non scaduti

B- atti compiuti nei sei mesi precedenti alla dichiarazione di fallimento:

1- i pegni, le anticresi e le ipoteche giudiziali o volontarie costituiti entro sei mesi anteriori alla dichiarazione di fallimento per debiti scaduti.

Nei suddetti casi, il curatore non dovrà provare l’esistenza dello stato di insolvenza, ma solo il compimento di quegli atti nell’anno o nei sei mesi dalla dichiarazione di fallimento. Infatti, il compimento dell’atto fa presumere lo stato d’insolvenza.

È però possibile che il terzo eviti la revoca se riesce a provare che non conosceva lo stato d’insolvenza dell’imprenditore.

Atti che possono essere revocati dal curatore solo se riesce a provare che il terzo era a conoscenza dello stato d’insolvenza:

C- compiuti nei sei mesi precedenti alla dichiarazione di fallimento:

1- i pagamenti di debiti liquidi ed esigibili.

2- gli atti costitutivi di un diritto di prelazione, anche per debiti di terzi e per debiti ovviamente contestualmente creati.

3- gli altri atti a titolo oneroso.

In quest’ultima ipotesi il curatore non dovrà limitarsi a provare la semplice esistenza delle condizioni previste dalla legge, come nella precedente, ma dovrà riuscire a provare la conoscenza dello stato di insolvenza da parte del terzo se vuole che il tribunale pronunci la sentenza di revoca.
La prova che dovrà fornire il curatore, in questo caso, difficilmente potrà essere quella diretta, come una prova documentale o costituenda, ma più probabilmente sarà una prova indiretta, quella cioè che si ottiene in seguito a una presunzione ex art. 2729 del codice civile.

In ogni caso questo maggior rigore si spiega col fatto che questi atti sono considerati normali nel esercizio dell’attività commerciale e, quindi, non necessariamente compiuti in stato d’insolvenza.
Osserviamo che i pagamenti effettuati dal fallito sono considerati di per sé, senza, cioè, andare a verificare se l’atto in base al quale sono stati effettuati dovesse essere a sua volta revocato; in altre parole per revocare tali pagamenti, non sarà necessario revocare anche l’atto che ne costitutiva la fonte.
Sempre in relazione ai pagamenti, si ritengono (dalla giurisprudenza) revocati anche i pagamenti effettuai da un terzo per il fallito ( ad es. perché da lui delegato, fideiussore o coobbligato ), a meno che il terzo con il pagamento non abbia anche estinto un debito che era anche il suo, come è di solito il caso del coobbligato solidale che ha pagato.

Passando al caso relativo alla costituzione di garanzie (diritti di prelazione), in relazione a debiti contestualmente create, notiamo che l’art. 67 della legge fallimentare, al secondo capoverso discetta di revoca di  diritti di prelazione costituiti dal fallito, anche per debiti di terzi. Tali diritti di prelazione sono identificati dall’art. 2741 nei privilegi (ovviamente convenzionali), il pegno e le ipoteche; non è chiaro se  in questo elenco dovrebbe essere inserita anche l'anticresi (art. 1960 c.c.), che menzionata in altre ipotesi dell’art. 67 (numeri 1 e 3), non è stata richiamata in questo caso.

Oltre alla disciplina prevista dall’art. 67, la legge fallimentare prevede tre casi particolari.
Il primo fa riferimento a un’ipotesi relativa alle operazioni  normali nell'esercizio di un’impresa, ed è quella prevista dall’art. 67 bis, dove la società abbia costituito dei patrimoni destinati ad uno specifico affare ex art. 2447 bis lettera A. Mentre i rapporti relativi alla lettera B dell’art. 2447 bis, (finanziamenti per uno specifico affare) sono regolati dall’art. 72 ter.

Tornando ai patrimoni destinati ad uno specifico affare l’art. 67 bis prevede le seguenti condizioni:
1- pregiudicano il patrimonio della società.

2- il terzo era a conoscenza dello stato d’insolvenza della società.

Il secondo caso  si riferisce all’ipotesi che debitore abbia pagato per estinguere delle obbligazioni cambiarie; questi pagamenti potranno essere revocati solo alle condizioni previste dall’art. 68 della legge fallimentare.

 

L’ipotesi prevista dall'art. 68 deroga alla disciplina generale prevista dall’art. 67, secondo comma, cioè ai casi di pagamenti effettuati dal fallito che possono considerarsi normali nell’esercizio dell’impresa, come il pagamento di una cambiale scaduta.

Secondo la regola generale prevista dal secondo comma dell’art. 67, e di cui ci siamo occupati poc’anzi, un pagamento del genere potrebbe comunque essere revocato se il curatore riuscisse a provare che il creditore cambiario fosse comunque a conoscenza dello stato d’insolvenza dell’imprenditore.
Se poi la cambiale fosse stata girata, l’ultimo giratario/prenditore che incassa il suo credito dall’imprenditore, dovrebbe poi restituire la somma al curatore  quando, al momento dell’incasso, fosse stato a conoscenza dello stato d’insolvenza dell’imprenditore.

In teoria l’ultimo prenditore della cambiale, conoscendo lo stato d’insolvenza dell’imprenditore, potrebbe rifiutare il pagamento, ma così perderebbe l’azione di regresso nei confronti degli obbligati cambiari in via di regresso, perché rifiutando il pagamento impedisce che sia levato il protesto, che normalmente costituisce condizione per poter agire contro questi obbligati.
Per questi motivi, l’art. 68 della legge fallimentare, in deroga a quanto previsto in generale dall’art. 67, secondo comma, impedisce la revoca di tale pagamento “se il possessore di questa doveva accettarlo per non perdere l’azione cambiaria di regresso”.

Di conseguenza il curatore dovrebbe rassegnarsi a perdere la somma pagata dall’imprenditore per la cambiale, ma potrebbe accadere che l’ultimo obbligato in via di regresso, che ha girato la cambiale a favore dell’ultimo prenditore che ha poi incassato il credito, fosse a conoscenza, al momento della girata, dello stato d’insolvenza del debitore principale, l’imprenditore, e nonostante ciò ha girato la cambiale ricevendo dal prenditore/giratario, la somma pattuita per la consegna del titolo e del relativo credito. In tal caso il curatore potrà farsi versare la somma ricevuta dall’obbligato in via di regresso, se riesce a provare che questi era a conoscenza dello stato di insolvenza del principale obbligato quando ha tratto o girato la cambiale.

Vi è poi infine il terzo caso relativo agli atti compiuti tra coniugi.

Abrogato l’art. 70 della legge fallimentare e sostituito dal nuovo art. 70 che si riferisce a questioni diverse, è venuta meno anche la cosiddetta “presunzione muciana”, ma ciò non vuol dire che gli atti compiuti tra i coniugi siano indifferenti ai fini della revocatoria fallimentare.
L’art. 69 prevede, infatti, una presunzione di conoscenza per l’altro coniuge, non fallito, in merito allo stato di insolvenza del coniuge/prenditore fallito.

Sarà quindi il coniuge non fallito a dover provare che non era a conoscenza dello stato d’insolvenza dell'altro e non il curatore, come dovrebbe essere di regola.

Un’altra particolarità sta nel fatto che gli atti possono essere revocati se compiuti nel tempo in cui il fallito esercitava un impresa commerciale, e quindi in ogni tempo, anche due anni prima della dichiarazione di fallimento. Si tratta, quindi, di una disciplina particolarmente severa.
 
Ma vediamo quali sono questi atti tra coniugi previsti dall’art. 69 della legge fallimentare.

Atti tra coniugi soggetti a revocatoria

A- compiuti in ogni tempo tra coniugi ma nel periodo in cui il consorte effettivamente esercitava un’impresa commerciale, se l’altro coniuge non prova che non era a conoscenza dello stato d’insolvenza del coniuge:

1- tutti gli atti previsti dall’art. 67 della legge fallimentare. Ovvero i casi in cui normalmente si esercita l’azione revocatoria fallimentare.

2- gli atti a titolo gratuito tra coniugi.

Bisogna nel caso di specie però fare un’osservazione. L’art. 69 della legge fallimentare fa riferimento a tutti gli atti previsti dall’art. 67, cioè quelli soggetti a revocatoria fallimentare;
poi si riferisce anche agli atti a titolo gratuito compiuti più di due anni prima della dichiarazione di fallimento.
È chiaro che in questo caso non siamo nelle ipotesi dell’art. 67, ma in quella dell’art. 64 che si riferisce degli atti a titolo gratuito compiuti dal fallito che sono inefficaci ope legis se effettuati entro i due anni dalla dichiarazione di fallimento. Questo è il motivo del riferimento dell’art. 67 agli atti compiuti a  più di due anni prima della dichiarazione di fallimento, perché tali atti non sarebbero, secondo le regole generali, né inefficaci, né revocabili.

In conclusione è vero che tra coniugi non c’è termine per la revoca, salvo quanto diremo tra poco.

I tempi della revocatoria fallimentare sono quindi variabili, perché si va dai sei mesi, ad un anno, o anche due anni, per finire a un tempo indeterminato in relazione agli atti compiuti tra i coniugi.
Fortunatamente l’art. 69 bis pone un limite temporale di decadenza all’esercizio della revocatoria fallimentare; il riferimento alla decadenza compiuto dall’art. 69 bis è importante, perché non essendo questi termini di prescrizione, a loro non applica la disciplina della interruzione e sospensione della prescrizione. Ma vediamo quali sono i termini di decadenza dall’azione revocatoria.

Tre anni dalla dichiarazione di fallimento e cinque anni dal compimento dell’atto pregiudizievole. La legge n° 134 del 2012 ha però aggiunto un secondo comma all’art. 69 bis, nel caso di proposizione di concordato preventivo, cui segua la dichiarazione di fallimento: nel caso in cui alla domanda di concordato preventivo segua la dichiarazione di fallimento, i termini di cui agli articoli 64, 65, 67, primo e secondo comma, e 69 decorrono dalla data di pubblicazione della domanda di concordato nel registro delle imprese.

Secondo invece il nuovo testo dell’art. 67 non tutti gli atti possono essere revocati;
Vediamo, quindi quali sono gli atti compiuti dal fallito che non possono essere revocati.

Non sono soggetti all’azione revocatoria.

A- i pagamenti di beni e servizi effettuati nell’esercizio dell’attività d’impresa nei termini d’uso.

B- le rimesse effettuate su un conto corrente bancario, purchè non abbiano ridotto in maniera consistente e durevole l’esposizione debitoria del fallito nei confronti della banca.

C- le vendite ed i preliminari di vendita trascritti ai sensi dell’art. 2645 bis del codice civile, i cui effetti non siano cessati ai sensi del terzo capoverso della suddetta disposizione, conclusi ad un giusto prezzo ed aventi ad oggetto immobili ad uso abitativo, destinati a costituire l’abitazione principale dell’acquirente o di suoi parenti affini entro il terzo grado. Ed ancora gli immobili ad uso non abitativo destinati a costituire la sede principale dell’attività di impresa dell’acquirente, purché alla data di dichiarazione del fallimento, questa attività sia effettivamente esercitata. Ovvero siano stati compiuti degli investimenti per darvi inizio.

D- gli atti, i pagamenti e le garanzie concessi su beni del debitore purché posti in esecuzione di un piano che appaia idoneo a consentire il risanamento della esposizione debitoria dell’impresa e ad assicurare il riequilibrio della sua situazione finanziaria e la cui veridicità è attestata da un professionista indipendente.

E- gli atti, i pagamenti e le garanzie posti in essere in esecuzione del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata, nonché dell’accordo di ristrutturazione dei crediti, omologato, ex art. 182 della legge fallimentare. E altresì gli atti, i pagamenti e le garanzie legalmente posti in essere dopo il deposito del ricorso di cui all’art. 161 della legge fallimentare.

F- i pagamenti dei corrispettivi per prestazioni di lavoro effettuate da dipendenti ed altri collaboratori, anche non subordinati del fallito.

G- i pagamanti di debiti liquidi ed esigibili eseguiti alla scadenza per ottenere la prestazione di servizi strumentali all’accesso alle procedure concorsuali di amministrazione controllata e di concordato preventivo.

H- le operazioni di credito su pegno e di credito fondiario.

La revocatoria è poi esclusa per l’istituto di emissione. Fatte salve le leggi speciali. 

L’art. 67 non esaurisce le ipotesi di esenzione dalla azione revocatoria, poiché molte altre sono previste in numerose leggi speciali, tra cui ricordiamo la  legge n° 52 del 1991 relativa al factoring (art. 7); la legge n° 130 del 1999 relativa alla cartolarizzazione dei crediti d’impresa (art. 4). Per quanto riguarda, invece, il credito fondiario il riferimento è al decreto legislativo n° 122 del 2005.

In conclusione, va esaminata la indissolubile correlazione esistente tra l’azione revocatoria ordinaria e quella fallimentare.

Il curatore per, salvaguardare le ragioni dei creditori del fallito, può agire sia con la revocatoria ordinaria che con la revocatoria fallimentare.

Le due azioni, pur potendo in alcuni casi riguardare le stesse ipotesi, rimangono distinte tanto che l’art. 66 della legge fallimentare dispone che il curatore può domandare che siano dichiarati inefficaci gli atti compiuti dal debitore in pregiudizio dei creditori, secondo le norme del codice civile. Benché la competenza deve essere attribuita al giudice fallimentare.

 

Revocatoria fallimentare

è prevista negli artt. 64 e ss. l.f. e comporta l’inefficacia degli atti disposizione compiuti dal debitore;

è applicabile solo in caso di fallimento, nei confronti di un imprenditore;

è, di regola, necessario per la sua applicazione lo stato d’insolvenza dell'imprenditore in un periodo che varia da sei mesi a due anni dalla dichiarazione di fallimento;

gli atti a titolo gratuito sono automaticamente revocati.

 

Revocatoria ordinaria

è prevista negli artt. 2901 e ss. c.c. e comporta l’inefficacia degli atti di disposizione compiuti dal debitore;

è applicabile nei confronti di qualsiasi debitore;

può essere chiesta anche indipendentemente dallo stato d'insolvenza del debitore, ma solo se l’atto da lui compiuto possa arrecare pregiudizio alle ragioni del creditore;

gli atti a titolo gratuito sono revocati solo se il creditore riesce a provare la malafede o il dolo del debitore;

gli atti a titolo oneroso sono revocati solo se il creditore riesce a provare la malafede o il dolo del debitore e la malafede o il dolo del terzo.

 

Come è facilmente intuibile è più difficile far revocare un atto attraverso la revocatoria ordinaria rispetto a quella fallimentare. Tuttavia il curatore si avvarrà della revocatoria ordinaria quando non sarà possibile agire con la fallimentare, come nel caso in cui il debitore, poi fallito, abbia costituito un’ipoteca contestualmente al debito due anni prima della dichiarazione di fallimento.

Chiudiamo l’argomento considerando gli effetti della revocazione.

L’art. 70 della legge fallimentare stabilisce che in seguito alla revocazione, rectius in seguito alla riuscita dell’azione revocatoria, colui che ha restituito quanto aveva ricevuto dal fallito è ammesso al fallimento per il suo eventuale credito.

Il nuovo testo dell’art. 70 ha sostanzialmente mantenuto la regola dell’art. 71, ma ha anche aggiunto due ulteriori casi:

1- l’effetto della revocazione si produce nei confronti del destinatario della prestazione, anche nel caso in cui siano stati effettuati pagamenti per il tramite di intermediari specializzati  o in seguito alla procedure di compensazione multilaterale o dalle società previste dalla legge n° 1966 del del 1939;
2- si è stabilito, nel caso in cui  la  revoca  abbia  ad  oggetto  atti estintivi di rapporti continuativi  o  reiterati, o derivanti da conto corrente bancario, l’importo della somma che deve restituire il terzo che si è visto revocare l’atto. In ogni caso al terzo spetta il diritto d’insinuarsi al passivo per la somma che ha dovuto restituire.

Per chiosare e per riassumere nello specifico in quesito posto, va osservato: l’acquirente, a determinate condizioni, può essere coinvolto nel fallimento del venditore, anche nel caso in cui il fallimento si verifichi dopo il rogito, quando cioè l’acquirente è già divenuto proprietario del bene.

Il curatore fallimentare, per recuperare le risorse necessarie a soddisfare i creditori del fallito, può infatti intentare l’azione revocatoria, un’azione con la quale viene appunto revocata la compravendita, che diviene così inefficace rispetto ai creditori fallimentari, che possono quindi mettere l’immobile all’asta e soddisfarsi sul ricavato.

Se l’azione ha successo l’acquirente perde la casa e deve mettersi in coda con gli altri creditori del fallito ricevendo presumibilmente meno, spesso molto meno, di quello che aveva pagato. Esercitare l’azione revocatoria fallimentare però, non è facile.

Innanzitutto l’azione può essere proposta soltanto se il fallimento è stato dichiarato entro un anno dal rogito (art. 67, primo comma) e l’azione deve essere promossa entro tre anni dalla dichiarazione di fallimento (art. 69 bis).

Il curatore deve poi dimostrare che il venditore, essendo in difficoltà, aveva fatto uno sconto all’acquirente superiore al 25% del valore di mercato della casa.

Non deve invece dimostrare che l’acquirente conosceva lo stato d’insolvenza del debitore; sarà l’acquirente a dover dimostrare il contrario, che cioè di queste sue difficoltà non sapeva nulla. Infine, se l’acquirente ha acquistato “a giusto prezzo” una casa ad uso abitativo destinata a costituire l’abitazione principale sua o dei suoi parenti e affini fino al terzo grado, l’azione revocatoria fallimentare non potrà essere intentata e l’acquirente potrà ritenersi al sicuro.
Resta comunque la possibilità per il curatore fallimentare, per cinque anni dal rogito, come per qualsiasi altro creditore, di esercitare l’azione revocatoria ordinaria, ma in questo caso occorre provare che l’acquirente era a conoscenza che con l’acquisto della casa venivano pregiudicati altri creditori del venditore, o che era d’accordo con lui per frodare i creditori (art. 2901 cod. civ.) e la prova, che spetta questa volta a chi agisce, è tutt’altro che agevole.